«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Il cestaio (U panararu)


Ceste e canestri sono tra i primi recipienti usati dall’uomo. L’esistenza dell’arte di intrecciare è documentata da numerose ricerche archeologiche condotte tra i palafitticoli lacustri della Svizzera1 fin dal Neolitico, e forse anche prima.
Di sicuro non esistono popoli né antichi né primitivi attuali che non abbiano posseduto o non possiedano una qualche tecnica, quand’anche rudimentale, per intrecciare canestri, cestini e altro. Quella dell’intreccio è dunque, tra le più antiche arti manuali praticate dall'uomo; storicamente anticipa la produzione della ceramica e dà il via alla tecnica della tessitura.
         Le fibre vegetali usate per l’intreccio sono tantissime a variano a seconda delle latitudini e della tipologia di manufatto che si intende realizzare: oggetto d’uso, ornamentale, apotropaico, altro. La nostra civiltà contadina e pastorale si serviva e in minima parte ancora oggi si serve della canna, dei virgulti d’olivastro, di olmo, di salice, si serve della palma da datteri, della palma nana, del verbasco, dell’ampelodesmo (liama) del giunco, dell'agave, della rafia, della paglia, dei culmi delle spighe, della canapa.
         Quello del cestaio non era un mestiere vero e proprio già prima dell’invenzione della plastica; l’avvento dei contenitori fatti di tale materia ha ancor di più ridimensionato questa attività artigianale circoscrivendola al genere souvenir e alla tendenza di attribuire a questi contenitori del passato una funzione estetica che essi non possedevano quando la loro funzione era essenzialmente pratica, e, per la forma e per la materia, contribuivano a connotare la cultura materiale propria di una data società.
     Un mestiere avaro di soddisfazioni e di pane dunque, ciò malgrado, nei grossi centri fino a qualche tempo fa lavoravano botteghe a tempo pieno con più di un addetto in grado di produrre ceste, panieri, corbelli e altro per i vari usi domestici, per la campagna, per le botteghe di frutta, ecc. Nei piccoli paesi, invece, essendo più scarsa la domanda, questo tipo di artigiano lavorava saltuariamente o si adattava a fare altri tipi di manufatti o, se la stagione e la domanda lo richiedevano, si buttava nel bracciantato agricolo.
         In ogni caso gli stessi contadini, con la cultura dell’autosufficienza nel DNA, nei periodi morti della stagione agricola, erano capaci di intrecciare canne e oleastri, per uso personale e anche per conto terzi.
         Oggi, cassette, vassoi e contenitori vari di plastica, di polistirolo o di legno dominano il campo, là dove prima esistevano solo ceste e panieri: sono senza dubbio più pratici, sovrapponibili e costano meno, non hanno però il pregio e il fascino dei panieri, che mantengono perfettamente aerato e fresco qualsiasi prodotto in essi contenuto e fanno anche coreografia
         In via Padre Girolamo 23, a Palazzolo, era ubicata la piccolissima bottega del signor Giuseppe Gallo, classe 1928, cestaio per caso e per "ammazzare" il tempo. Il piccolo laboratorio era letteralmente sommerso di ceste, panieri, corbelli, 'nzira (contenitori per il pane), fiaschi impagliati e al posto d’onore una bella botte con il vino. Al muro erano messi in bella mostra panarieddi per i cieusi niuri, aratri e collari in miniatura, cucchiai in legno, piccoli attrezzi per la ricotta tutto in miniatura. Don Pippinu aveva iniziato questa attività con il rifare l'impagliatura ad una vecchia damigiana; poi a poco a poco e prendendoci gusto aveva continuato a cimentarsi in lavori d’intreccio sempre più impegnativi e con risultati sempre più apprezzabili. 
         Al tempo dell’intervista Don Pippinu, affermava di avere iniziato a coltivare questo hobby-lavoro da circa 7 anni e di avere prodotto da allora oltre cinquemila manufatti intrecciati. Con una punta di orgoglio e con una certa enfasi, ripeteva  che i suoi panieri se li erano portati "a New Jork, in Germania, in Svizzera..., a Ragusa, a Siracusa, a Catania, a Milano..., a Torino, a Roma... Le verghe di oleastro o di olmo me li “faccio” io stesso. La mattina presto mi reco col mio fedele "Motom" rosso in una campagna qui vicino e in poco tempo ritorno con un bel fascio di viristeddi.          L'oleastro dopo raccolto si fa ammaciurari per circa una settimana, e poi  prima di lavorarlo se è troppo asciutto, si mette a mollo per qualche ora; si utilizza senza togliere la corteccia. La canna, invece, la compro già tagliata e stagionata di oltre quattro mesi. Prima di ciaccarla per lavorarla, si fa la scannatura, cioè si eliminano le foglie, quindi si riduce a strisce, quattro o cinque, per tutta la sua lunghezza”. 

         Le tecniche di realizzazione sono fondamentalmente di due tipi: l’intrecciatura a spirale, e l’intrecciatura a elementi incrociati o tessuti. La prima è quella più diffusa; la scelta della tecnica dipende in ogni caso dalla misura e dal tipo di manufatto che si intende realizzare2.

         “Con i virgulti si inizia a intrecciare la ‘piazza’, cioè il fondo del paniere - continua don Pippinu - si inizia dal centro e si fa girare a spirale il fascetto o i fascetti di elementi: ogni giro è legato al successivo mediante un elemento flessibile che si avvolge anch’esso a spirale detto tramaturi. Dal fondo si fanno partire a coppia sei, otto o più colonne (dipende dalla grandezza del manufatto che si vuole realizzare) di viristeddi luonghi na mitrata. Questa è l’armatura delle pareti dove andranno ad inserirsi le listelle di canna. Se si tratta di un panaru, prima di armare le pareti nel fondo si innestano due fascetti di bacchette più lunghe e più spesse delle prime e si fanno uscire da due punti diametralmente opposti: unite e intrecciate daranno origine al manico ad arco del paniere. Dopo aver chiuso la base con un giro doppio di treccia, con le listelle di canna si passa alla tessitura delle pareti e infine si chiude il bordo superiore raccogliendo a treccia la parte terminale delle verghe portanti”.
         Fin qui l’intervista, durante la quale don Peppino, seduto su una sedia bassa impagliata con tra le gambe il fondo di un paniere in formazione, continuava a lavorare e a fumare pure. Era però l’abilità delle sue mani a rubare la scena: le sue mani esperte intente ad accavallare montanti e listelli, accompagnate dal movimento del corpo e  dalle espressioni del viso che variavano di volta in volta, seconda dello sforzo che compiva.  
Oltre al tradizionale panaru usato per la frutta, era molto varia la produzione di questi manufatti intrecciati, e, le forme, le grandezze e gli usi variavano da una zona all’altra della Sicilia (a Palazzolo nei pomeriggi di luglio un tempo erano un classico i ceusi niuri bandezzati e venduti da un signore soprannominato Santuvanni contenuti nei panarieddi con la bocca coperta da un pampino di gelso. Si confezionavano ceste, canestri, i ‘nzira per il pane, nel ragusano i mastreddi di canna per fare scolare la ricotta, i cannizzi per contenere il frumento, e poi cufina per il trasporto a spalla di materiali pesanti, di pietre, per vendemmiare, per le olive, cufinedda per catturare le anguille,  impagliature, come detto sopra, per damigiane, bottiglie, bottiglioni ecc.

         Questo antico mestiere, oggi è quasi scomparso. Non è più in grado di competere con la funzionalità e la praticità dei contenitori oggi in uso completamente diversi nella forma e nella materia. Però quando ancora capita di vedere una cesta o un paniere con dell’uva dentro o con dei fichi o con qualsiasi altra frutta, ritornano subito alla mente ricordi e  atmosfere andate.






1 Beals-Hoijer, Introduzione all’antropologia culturale, p.120
2 Beals-Hoijer, Introduzione … op. cit. 127 Antropologia -Gli Indiani della California spesso dimostrano la loro perizia facendo cestini piccolissimi alcuni con un diametro inferiore a mezzo centimetro, usando per la trama materiale più sottile di un filo di seta cruda +In contrasto con gli Indiani i Pomos fabbricano enormi cesti di materiali rozzi, ognuno capace di contenere parecchi quintali; altri cesti sono intrecciati con una tessitura così stretta che sono a tenuta d’acqua.  …

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