«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Ripensando ai pastori di una volta


"Lu picuraru vistutu ri sita, sempri feti ri latti e lacciata"

Mentre le pecore pascolavano, Dafni, primo pastore-poeta di Sicilia (in mitologia le colline iblee sono ritenute dimora di Dafne), imparò a suonare il flauto e a cantare: la sua voce e i suoi suoni erano così dolci che le pecore cessavano di brucare l'erba. Ma Dafni era anche capace di ricavare zufoli dalle canne e di insegnare agli altri la maniera di farlo.
      Il pastore, da sempre, è stato in grado di poetare, di produrre manufatti, di eseguire lavoretti di vario genere. Scrive Verga nella novella Jeli il pastore: "Ei sapeva fare ogni sorta di lavori con l'ago; e ci aveva un batuffoletto di cenci nella sacca di tela, per rattoppare al bisogno le brache e le maniche del giubbone; sapeva anche tessere dei treccioli di crini di cavallo... la gnà Lia gli cuoceva il pane per amore del prossimo, ed ei la ricambiava con bei panieri per le ova, arcolai di canna, ed altre coserelle..." 1.
      E ancora Pitrè, all'inizio del secolo scorso: "...quegli oggetti di uso domestico che sono arte di gente priva d'istruzione e lontana dal consorzio umano....son lavori primitivi, spontanei, di mandriani, di pecorai, di contadini, che in primavera e in estate, sopra un ciglione o un masso, al sole o all'ombra, presso un rivo o una fonte, mentre le greggi pascolano tranquillamente, si studiano di trarre profitto dai loro ozi forzati..."2 .
      E infine Uccello, nel 1973: "Il pastore eccelle e acquista prestigio nella comunità anche per la molteplicità di esperienze e cognizioni: nel saper prevedere il tempo, guarire le pecore da eventuali morbi, intagliare bastoni e collari, armonizzare il suono dei campanacci" 3.

Il gsm ricaricabile

      Ecco, a tutte queste cose mi venne di pensare, per contrapposizione, quando qualche tempo fa mi imbattei nel pastore Nunzio Carrubba intento a parlare al suo GSM ricaricabile mentre il gregge pascolava tranquillamente nel terreno confinante col mio, in contrada Casabianca. (Quagghialatti, nella tradizione locale: la voce corrisponde al nome di una pianta, Galio o Caglio ‘Galium verum’, così chiamata per le sue proprietà di far  cagliare il latte in alternativa al caglio animale). Il giovane pastore, proveniente dalla contrada “Fiumara di Sopra” in territorio di Solarino, stante la stagione, si era trasferito nelle colline iblee dove i pascoli sono più generosi e aromatici.
      Non avrei mai pensato che il cellulare sarebbe potuto diventare uno strumento di “lavoro” anche per i pastori, eppure è così: il telefonino, visto la tipologia di lavoro, al pastore dà sicurezza, compagnia ma anche comunicazioni utili. Questa utilissima invenzione, sfruttata anche in situazioni inimmaginabili, è stata la molla che mi ha portato a riflettere e a farmi ricordare che anche per la civiltà agro-pastorale i tempi stanno cambiando. Oggi al tradizionale “sapere” delle mani, che oltre al vantaggio pratico e utilitaristico serviva anche per “ammazzare” il tempo e quindi a vincere la solitudine, sono subentrati la radio-cuffia, gli auricolari per la radio incorporata al telefonino, la lettura (i pastori non sono più analfabeti come una volta), e anche il telefonino. 
      E se, sotto certi aspetti, il mondo della pastorizia è rimasto fondamentalmente lo stesso, tuttavia sono finiti taluni riti e tradizioni, sono cambiati gli ambienti di lavoro, sta cambiando la forma e la materia di alcuni attrezzi, sono entrate nell’uso alcune piccole macchine (vedi l’argano per togliere la quarara dal fuoco) che contribuiscono ad alleviare un po’ la fatica di questo lavoro.
      Ad esempio negli spostamenti, mentre le pecore sono tenute a bada dai cani, il pastore (parliamo naturalmente di quello che va al passo coi tempi) molto probabilmente le segue stando a bordo di un auto, di un fuoristrada.
         Dopo la scanna a febbraio, a maggio arriva il tempo di tosare le pecore, u tunniri; una volta, come riferiva Uccello per bocca del sortinese Paolo Carpinteri, i pastori facevano l’”invito”.
Si disponeva cioè una turnazione delle greggi e nel giorno stabilito i pastori della contrada andavano tutti a tosare le pecore nell’ovile di turno. La sera, a lavoro finito, si festeggiava tutti in compagnia e in allegria con mangiate e abbondanti bevute. L’indomani si passava ad un altro ovile e così via4. Oggi tale rito è andato in disuso, anche  poiché, al posto delle forbici per tosare, si usa la “macchina”, un rasoio elettrico ad hoc che velocizza l’operazione e fa risparmiare tempo e fatica.
      Sono tante le altre innovazioni che aiutano il pastore nel lavoro di tutti i giorni e che a poco a poco stanno cambiando la tradizionale connotazione di questa attività.
      Ma, vogliamo mettere il fascino delle ricotte nelle piccole cavagne di canna chiuse dalle foglie di purrazza(asfodelo)? (questa, secondo la leggenda, fu l’erba di cui si nutrirono le prime pecore al mondo e, per serbarne memoria per sempre, fu utilizzata per coprire la bocca delle cavagne). Le ricottine, al grido di ...e riotti friiischi... sistemate su un motore o su un asino, venivano vendute per le strade e scavagnate ancora calde nei piatti che le donne porgevano al ricottaro-pastore.
         Oggi la ricotta la trovi più comodamente nei supermercati, buona sempre, ma in fiscelle di plastica a perdere, marcata e datata. E il latte? La stessa cosa: confezionato in Tetra Pak, con scadenza, igienicamente perfetto e protetto. Prima, invece, girava il lattaio porta a porta con il latte nelle bottiglie di vetro a rendere, e, ancora prima, molto prima, circolavano per le strade dei paesi greggi di pecore e di capre (soprattutto queste ultime) e si vendeva il latte ai clienti mungendolo direttamente dalle sode murine alla caputa
      Finita o quasi, purtroppo, anche l’arte dei pastori di cui dissertarono a lungo Pitrè, Salomome Marino, Uccello e tantissimi altri. I collari (di bagolaro, di gelso nero), i cucchiai e i mestoli di prainu, i bastoni, le spolette, le conocchie, gli arcolai, tutti incisi con figurazioni fitomorfe (rami, fiori polipetali, rose ecc.), con figure femminili o di santi locali, con  ostensori, con figure geometriche ecc. non vengono più eseguiti. Con essi scompare la “cultura” e l’universo ideologico del pastore, un mondo rimasto sempre lo stesso per millenni.
      Rimangono immutati nei confronti della categoria, da sempre bistrattata, una serie di atavici pregiudizi più o meno fondati (i caprai in particolare erano malvisti soprattutto dagli agricoltori poiché le capre al pascolo quasi sempre sconfinavano in terreni coltivati procurando gran danno alle colture) che i pastori si portano addosso assieme al puzzo di latte e di ovile: “Lu picuraru is tutu di sita,/sempri feti di latti e lacciata”.         Pregiudizi difficili da sradicare anche al giorno d’oggi. Un mestiere quindi poco ambìto per tutto questo e per l’impegno diuturno di ventiquattro ore su ventiquattro. Eppure, in un vecchio canto popolare, l’innamoramento (o altro) di un focoso spasimante ardente di desiderio per una fanciulla gli fa esclamare: “Iù mi vulissi fari picuraru, Ppi munciri li minni a bboscia suoru”. Potenza dell’amore! (o altro).

Il Corriere degli Iblei, maggio 1999

1 G. Verga, Tutte le novelle, vol. I, 18° ed., VII ristampa, Milano, A. Mondadori, 1989,  p.130
2  G. Pitrè, La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano, Palermo1913, ediz. Anastatica, Palermo, “il Vespro”, 1978, p. 109
3 A. Uccello, La civiltà del legno in Sicilia, Cavallotto, Catania, 1973
4 Cfr. A. Uccello, Bovari . Pecorai . Curàtuli. Cultura casearia in Sicilia, Palermo, Associazione amici della Casa-museo di Palazzolo, 1980,  p.33. Scrive Verga sempre a proposito della tosaura delle pecore: “Jeli… era venuto col padrone della fattoria insieme a una brigata d’amici, a fare una scampagnata nel tempo che si tosavano le pecore… le pecore saltellavano a belavano dal piacere, al sentirsi spogliate da tutta quella lana, , e nella cucina le donne facevano un gran fuoco per cuocere la gran roba che il padrone aveva portato per il desinare…”. (G. Verga, Tutte le novelle, vol. I,  op.cit. p. 160).


    
  
      
     

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