«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Don Nzinu l’ultimo cordaro del “Paradiso”


Agli inizi di questo secolo, la provincia di Siracusa, comprendente ancora il territorio di Ragusa (diventata provincia nel 1927), contava circa trenta botteghe di cordai con un centinaio di addetti1, quasi tutti impegnati a tempo pieno.
Per ovvie esigenze di spazio, il lavoro si svolgeva in andane a cielo scoperto o mal riparate da rabberciate tettoie o in qualsiasi spazio sufficientemente esteso in lunghezza, da permettere di stendere i fili, d’intrecciarli e di ritorcerli. 
Sotto questo profilo, i cordai siracusani, ospiti della grotta detta dei “Cordari” proprio per l'attività che veniva svolta al suo interno, reumatismi a parte, si potevano ritenere dei privilegiati. Oltre a questo avevano un altro vantaggio: la possibilità di conoscere un vastissimo e cosmopolita pubblico di visitatori e i vari personaggi politici, dello spettacolo, della cultura, attratti dalle bellezze naturali di Siracusa e dal suo patrimonio di monumenti classici che costituiscono incancellabile ricordo di un’epoca di grande splendore.
 La grotta dei Cordari è un enorme antro umido con le pareti tappezzate di muschio e di capelvenere e con le volte sorrette da pilastri simili a gigantesche stalattiti; assieme all'Orecchio di Dionisio con le sue millenarie leggende, è parte integrante dello splendido scenario delle latomie del Paradiso immerse in una rigogliosissima vegetazione ricca di palme, limoni, oleandri, nespoli, fichi d’India.
In questa grotta, tra le immani pareti strapiombanti nel verde e i silenzi abissali, per tre secoli, questi artigiani siracusani hanno perpetuato il tradizionale sistema di produrre corde con la ruota a mano, e alla lunga sono diventati  anche un pezzo di “folklore” ben armonizzato con la particolare architettura pietrosa delle cave e motivo di richiamo e di curiosità per tutti i visitatori.
Ciononostante, nel novembre del 1984 il signor Vincenzo Ambrogio, nato nel 1919 e scomparso circa cinque anni fa, fu costretto a bloccare la vecchia rrota in quanto la grotta era stata dichiarata inagibile per pericolo di crolli: don 'Nzinu, ultimo cordaro della grotta, diventò tutt’a un tratto e suo malgrado un tranquillo pensionato. 
Si diventava cordai per tradizione familiare e quella degli Ambrogio è stata da sempre una famiglia di cordari: il padre, lo zio Pippinu, il nonno Salvatore e così via a ritroso nel tempo, fino ad arrivare ai remotissimi antenati che si insediarono per primi nella Grotta. Ciò accadde subito dopo lo spaventoso terremoto del 1693 che squarciò volte e pareti del “Paradiso”, dando origine agli attuali anfratti.
Oltre agli Ambrogio, la Grotta ospitava pure un'altra antica famiglia di cordai, gli Scrofani, specializzati, in particolare, nella produzione di cordame robusto. Ianu e Salvatore sono stati gli ultimi rappresentanti di quest’altra famiglia.
In primavera e in estate i ritmi lavorativi erano abbastanza sostenuti: appena albeggiava, le quattro ruote erano già in movimento e continuavano a girare sino a tarda sera, alla luce delle candele. Durante la stagione degli amori, quando i tonni erano di passo, i cordai si trasferivano armi e bagagli ad Avola, a Marzamemi, a Portopalo per intrecciare i robusti cavi di cocco e il rumaneddu per le tonnare.
Le fibre vegetali comunemente adoperate erano la canapa, il cocco e l’agave americana; quest’ultima, zammara, veniva impiegata quasi esclusivamente per il fondo delle sedie. Il cocco (l'ammasso fibroso dei peli), proveniente dall'India, veniva utilizzato per i cavi più robusti e resistenti all'acqua. La canapa, cannu, era  la fibra più pregiata e la più utilizzata ed era intensivamente coltivata nelle nostre campagne, sino alla fine del secolo scorso. La produzione era disciplinata dai vari Regolamenti municipali di cui era dotato ciascun Comune: “…E’ proibita la seminazione del canape fra la distanza rettilinea di un chilometro e mezzo della periferia dell’abitato, ed infra la distanza di metri ottocento dalle pubbliche vie rotabili, e dalle case abitate di campagna e dai mulini. La macerazione di lini e canapi non può cominciare prima del 16 Agosto e sempre dietro il permesso dell’autorità Municipale… Per la maciullazione si osserverà la distanza come sopra, e per la scotolatura la distanza di metri cinquanta…” 2 .  
Poi, le malattie delle piante, l'inadeguatezza dei mezzi tecnici usati per la coltivazione e la severità delle normative, portarono all'abbandono di queste colture e all'utilizzo della canapa proveniente dalla Campania.

Il lavoro del cordaio
Semplice e allo stesso tempo faticoso il lavoro del cordaio, anche un po' monotono se vogliamo. In silenzio, sempre gli stessi gesti, gli  stessi passi, misurati, indietro e avanti, nelle andane, dall'alba a tramonto inoltrato: un estenuante lavoro di gambe e di mani.
I tigli sono filati partendo dalla fusella, a rrota, il singolare arcolaio azionato da un ragazzo (di solito era il figlio del cordaio, alle prime esperienze): il cordaio, andando a ritroso con  la matassa di cannu sotto l'ascella, a mano a mano col pollice e l’indice dipana, stira e fila ottenendo i filacci ( questa è la fase che richiede maggiore maestria).
La seconda operazione è la commettitura che consiste nel mettere assieme i diversi filacci per la corda base. Si passa quindi alla torsione per la composizione dei trefoli, a tre o a quattro filacce. Si parte dai capi opposti alla rrota con in mano un particolare attrezzo di legno chiamato aravia, una sorta di volano al quale sono collegate le filacce, sostenute dalle croci e già inserite nei rocchetti, tunnedda. Si procede in avanti piano piano, ruotando l'aravia, disimpegnata, nel giro, da un gancio di ferro chiamato firrittu, il quale girando su se stesso libera (sbenda) la corda.  Una volta pronti, i trefoli vengono bagnati e lisciati per mezzo di un'apposita rete metallica che porta via le scorie residue, a rrusca; si mettono, quindi, ad asciugare al sole per fissarsi ben bene l'intreccio.
I trefoli, infine, andranno a formare i vari tipi di fune, avvolgendoli in senso opposto gli uni rispetto agli altri, per evitare che i vari elementi si svolgano spontaneamente.

Tipi di corde
  La tipologia delle corde prodotte cambiava a seconda del luogo dove erano impiantate le botteghe. Nelle città di mare si realizzava il cordame per i pescatori, per le manovre correnti, per gli ormeggi: volantino, rumaneddu, merlino, sagola, gherlino, gomena, ecc. Una cospicua quantità di runmaneddu siracusano veniva prodotta per soddisfare pure le numerose commesse che regolarmente giungevano da Tripoli.
Nei centri ad economia agricola, la produzione delle corde e delle funi, oltre che agli usi domestici, era destinata ai contadini, ai carrettieri, ai calzolai, ecc. La corda più conosciuta, classica, era la corda ri carricari a 16, lunga fino a quaranta metri. Si tratta di una fune robusta, composta da quattro trefoli a quattro filacce: era utilizzata nei lavori della campagna, per caricare gli animali da soma, per le cavezze (cuddani) degli stessi, dai carrettieri, dai bastai, ecc. C’era la corda per i rrituna usati per il trasporto della paglia sui muli, c’era la corda nivalora  per i rrituna usati per il trasporto della neve sugli stessi, per le coffe di trappitu (di cocco); c'era la corda a 12, a 8, a seconda delle varie esigenze. Gli stessi contadini, con una tecnica completamente diversa da quella fin qui descritta, erano in grado di intrecciare corde per i più svariati usi con fibre di canapa, di palma nana (curina), di liama (ampelodesmo, tagliamani). I calzolai per cucire tomaie e suole, usavano i lignola, uno spago fino composto da due filacce.
E anche a Palazzolo operavano dei cordai (qui esiste ancora la via Cordaro) che svolgevano regolarmente la loro attività; l'ultimo è stato il signor Salvatore D'Ambrogio, soprannominato appunto don Turiddu u curdaru, il quale ha chiuso bottega nel 1954. Collaborato dal figlio Vincenzo, oggi bidello in pensione, lavorava presso il cosiddetto "orto dei Puglisi", nelle adiacenze dell'attuale ufficio postale, all'ombra di un magnifico gelso bianco.
Don 'Nzinu amico di Churchill
La “Grotta dei Cordari” era un crogiolo di incontri e di conoscenze, un ininterrotto crocevia di culture e di gente di tutto il mondo. Don 'Nzinu ha visto sfilare dentro la "sua" grotta una interminabile moltitudine di visitatori, ha conosciuto personalmente tantissimi personaggi famosi, in tutti i campi. L'amicizia con Winston Churchill rimane però il suo fiore all'occhiello e il suo ricordo più bello. Il grande statista inglese, nell'aprile del '55 trascorse quindici giorni di vacanza a Siracusa, ospite di Villa Politi. Tutti i giorni, scortato dal “gorilla”, si recava presso la grotta e qui dava sfogo al suo estro pittorico fissando sulla tavolozza i surreali giochi di luci, di ombre e di colori che la inondavano per tutto il giorno.
Sir Winston, con l'eterno sigaro in bocca e con la bottiglia a portata di mano, in quei giorni divenne subito amico di don 'Nzinu. Un guizzo di orgoglio e di compiacimento gli si legge di colpo negli occhi durante la nostra chiacchierata (l’intervista è stata realizzata il 23.6.1992). I ricordi si accavallano, il parlare si fa più serrato, incalzante, la moglie annuisce prima che il marito completi le frasi: "Ho il sigaro con tutta la fotografia, ancora, firmata da Lui, nel '55! Poi c'è stato... come si chiama?... il presidente Einaudi con sua moglie. Ce ne sono stati tanti, ma non mi ricordo il nome. Artisti ce ne sono stati “ncaforu!”...e mi hanno dato tutti le fotografie, firmate a mano... Churchill, una bravissima persona..., mi regalò anche duemila lire a quei tempi...".
Don 'Nzinu ricorda pure il brutto scivolone, a causa del fondo umido della grotta, di Marcello Marchesi (il signore di “mezza età”) finito in ospedale con la gamba spezzata. La grotta era anche meta di numerosi universitari e laureandi, alle ricerca dei segreti e delle tecniche dell'arte di fare corde.
Nei ritagli di tempo i cordai, con delle cordicelle, confezionavano dei souvenir a forma di Orecchio che andavano a ruba tra i turisti. Anche questa loro attività di ripiego e marginale era diventata un elemento di richiamo e di folklore, tanto che, da un originario affitto (censo) pagato dai cordai ai frati cappuccini prima, e al demanio poi, si era passati, invece, ad un modesto contributo elargito agli stessi sia dall'EPT e sia dal Comune.
Ma, Grotta dei Cordari a parte, questo mestiere rigorosamente artigianale, con l'avvento delle fibre sintetiche era già destinato a scomparire, qui come altrove; a poco a poco con il passare del tempo è andato sempre più indietro, a ritroso, proprio come faceva il cordaio: le fibre prodotte dalla chimica industriale assicurano una maggiore resistenza, una maggiore durata e sono più leggere. Un fatto, tuttavia, resta inconfutabile: la corda sintetica, di nailon o di meraklon, al tatto rimane "fredda" e non potrà mai avere il calore e l'anima della corda di fibra vegetale costruita interamente a mano.
"La Grotta poi si riempiva di acqua... - continua don 'Nzinu - e noialtri poveri disgraziati... ai cordari dovrebbero fare una statua d'oro e metterla dentro la Grotta… ora è uno schifo, sempre piena d'acqua è..  mentre noi la toglievamo e a rutta si asciugava... Per fortuna che l'Orecchio si trova un centimetro più alto...".
Un fremito di rimpianto e di commozione prende il nostro amico don ‘Nzinu. Lui, se la Grotta non l'avesse tradito, sarebbe rimasto ancora lì ad intrecciare corde fino a quando ne avrebbe avuto le forze. 

I SIRACUSANI, bimestrale di storia, arte tradizioni maggio-giugno 2004



1 5 Santi Cappellani, L’artigianato in Sicilia, Catania, Scuola salesiana del libro, 1958, p.76.

2 Archivio Comunale di Palazzolo Acreide, Regolamenti municipali di Palazzolo Acreide, 27.12.1865,  p. 73.

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