«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Quando si usavano ‘a conca e ‘a cunculina per combattere il freddo


…al vespero, la famiglia si raccoglieva davanti al braciere il quale diventava una sorta di collante…



Uuu nuuuuuzzuliddu ppi cuooncheee… ‘Uuu nuuuuuzzuliddu ppi cuooncheee… nuozzulu, nuozzulu… Era come l’arrivo delle rondini a primavera quello del venditore di nuzzuliddu, solo che il buonuomo, al contrario delle rondini, annunciava l’inizio della stagione fredda. La sua vanniata spegneva ogni residua illusione, era arrivato il freddo, bisognava attrezzarsi per combatterlo: le donne accorrevano in strada e facevano il pieno di combustibile per alimentare conchi e cunculini.
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Oggi le nostre case sono riscaldate con i termosifoni a gasolio, a metano, a legna, con i pannelli solari; ci sono le stufe elettriche, a gas, catalitiche, a kerosene, a pellet,  alogene, al quarzo; ci sono i termoventilatori oscillanti, i termoconvettori, camini, ermo camini, climatizzatori a pompa di calore ecc. ecc. In passato, invece, le case, specialmente quelle più modeste, erano attrezzate di bracieri grandi (conche) e piccoli (cunculini) che per tutta la stagione davano calore e conforto a tutti i componenti della famiglia. Ancora oggi, peraltro, le vecchiette più fridduline e legate alla tradizione, dismesso quasi del tutto il braciere, usano ‘a cunculina, compagna calorosa e inseparabile fino all’arrivo della nuova primavera: li vedi ancora sull’uscio di casa intente a dondolare (c’è sicuramente una sorta di transfert in questo gesto, una reminiscenza inconscia, di quando, giovani mamme, canticchiando facevano la nella naca alla loro creatura) e a ventilare il loro turibolo profano per ravvivarlo (questo rito, da qualcuno è stato sostituito con un sistema più pratico e più efficace: si mette un po’ di nuozzulu in una lattina di tonno vuota e poi lo si fa arroventare sul gas; quindi si mischia questa sansa a quella da attizzare sistemata nella cunculina, che, in pochissimo tempo, prende a infuocare).  
‘U nuozzulu, è il prodotto ottenuto dalla sansa sottoposta a processo di carbonizzazione in apposite fornaci, carcari. L’alternativa del nuzzuliddu è ‘a scurcidda costituita dai gusci delle mandorle fatte carbonizzare in mucchi circolari disposti all’aria aperta. In mancanza dell’uno e dell’altro c’era ‘u crauni stutatu o carbonella che veniva ottenuto a livello familiare da frasche e ramisteddi fatti bruciare e poi spenti a mezza cottura.  
Oggi c’è ancora il venditore ambulante di nuzzuliddu, ma non si sa fino a quando, ha le stagioni e (forse) i mesi contati; gira con la moto Ape o con il Fiorino e vende il prodotto in sacchi già pesati e confezionati da lui stesso; un volta, tutto nero, girava con il carretto e ‘u nuzzuliddu lo vendeva a munniu (3 Kg circa).
La conca rappresenta uno dei simboli pregnanti delle famiglie di una volta. Si accendeva nella tarda mattinata e serviva a riscaldare l’ambiente più  frequentato della casa; di pomeriggio, la massaia, possibilmente con le comari, vi si sedeva attorno per cucire e rammentare calze, camice, pantaloni; più tardi, al vespero, quando gli uomini tornavano dal lavoro, la famiglia si raccoglieva davanti al braciere il quale diventava una sorta di collante che teneva unita la famiglia per qualche ora (oggi c’è la Tv che non unisce ma divide).

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Attorno ad esso si parlava, si intrecciavano discorsi, si recitava il Rosario, si abbassava ‘u mecciu del lume a petrolio (o si spegneva la lampada) per risparmiare, si proponevano i nnivinagghi, le donne pizzicavano le fave per la minestra, i più anziani raccontavano i cunta: Orlando e i paladini, i monichi ro cummientu, Giufà, Triricinu, Bellalonga figghia, Le mille e una notte… Tutto diventava ridondante, epico; i più piccini, anche se insonnoliti, ascoltavano con la bocca aperta. Magari accorrevano di nuovo i vicini di casa, si caliàunu quattru favi e quattru ciciri e ascoltando e rucumiannu passava la serata. 
Con il cucchiaio, lasciato sul piede di legno, di tanto in tanto si rinfocolava la brace e poi la si copriva subito di cenere. Guai a scaliarla alla sans facon, a lasciarla scoperta (era “peccato mortale”), si sarebbe consumata in un amen. Sul piede della conca si posizionava ‘u circu: aveva la forma di una cupola ed era costruito con assicelle di legno curvate ed inchiodate. Serviva come protezione per i bambini che sembravano calamitati dal braciere acceso e tentavano in tutti i modi di ficcarcisi dentro e poi per asciugare la biancheria, le fasce dei neonati.
  In mezzo alla cenere calda del braciere si metteva a cuocere l’uovo: quando incominciava a “sudare” era à la coque; si mettevano fette di formaggio fresco; manate di olive nere che, incominciando ad arrostirsi, emanavano un profumo irresistibile e, alla fine, ti facevano girare la testa per avere esagerato nel mangiarne; si metteva (quando c’era) qualche cadduozzu di salsiccia avvolto nella carta oleata o nella arta paglia o direttamente sepolto nella cenere. A mano a mano che rosolava, la salsiccia sprigionava impagabili aromi che inebriavano e facevano venire l’acquolina a grandi e piccini. In mancanza d’altro si buttavano sulla brace bucce d’arancia secche che bruciando sprigionavano fragranze esotiche e surrogavano la fame. 
Stando sedute per mezze giornate intere davanti al braciere, le donne erano afflitte dai scursuna nelle gambe e nelle cosce. Per questa scottatura superficiale (incotto), che poteva anche provocare delle bolle sierose, esistevano dei rimedi affidati alla esperienza popolare: impacchi di aceto o della propria urina calda sulla parte bruciata; impacchi di neve appena caduta, unzioni con sapone di casa o con feccia di vino cotto o con chiara d’uovo battuta. Cataplasmi di patate tagliate a fette.
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‘A cunculina, come s’è detto, è il braciere più piccolo che le donne in inverno si portavano sempre dietro tenendolo in mano. Può essere di rame o di latta nuova o usata (quella grande delle acciughe sotto sale ad esempio). Dieci minuti prima di andare a dormire si appendeva all’apposito gancio del circu e si infilava dentro il letto per riscaldarlo. In questo modo il circu isolava lo scaldino e proteggeva le coperte dalla brace. 
Ancora prima si usava ‘u maritieddu o muonucu. Padre G. Farina ce ne dà notizia nella sua Selva: “Vi è l’uso in Palazzolo presso delle donne volgari invece dello scaldino di rame nell’inverno ne usano uno di argilla grossolana che chiamano marito”. Si tratta di un pentolino di creta col manico e col coperchio bucherellato, nel quale si teneva la brace accesa, per lo più per scaldarsi le mani e la sera per scaldare il letto. Qualche donna più freddolosa se lo metteva pure sotto la veste. A questo proposito, dal “San Giovanni Decollatu” di Nino Martoglio, rileggiamo il seguente gustoso episodio. Massara Prudenzia: "...Patri nostru ca siti 'ntra li celi... 'u sintiti 'stu ventu?". Massaru Caloriu: "Sia santificato il vostro nome... 'u sentu"….  Prudenzia: "Sarvi rigina... chi fetu!...". Caloriu: "Matri ri misiricordia ... Veru è!...". Prudenzia: "Vita, durcizza, spiranza nostra... 'U sa’ di unni veni?". Caloriu: "Ppi salvaricci ... A mia mi pari fetu d'arsu....". Prudenzia: "A vui ricurremu, figghi d'Eva... E di unni?... Chi c'è focu addumatu?...". Caloriu: "Chiancennu e lagrimannu, 'ntra 'sta valli di lagrimi... C'è paura c'hai 'u monucu di sutta?". Prudenzia: "Vih, ca veru è, malu pri mia!...". Caloriu: "Gesù binidittu... Doppu ca tu, sempri ccu 'stu monucu di sutta!...".  

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