«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

A proposito del New York Times

Il 27 giugno su IBLON è stato postato da Sebastiano Infantino un bellissimo articolo dal titolo " Un viaggio
in Sicilia, Chiese dappertutto" a firma  di Celestine Bohlen, pubblicato sul NYT del 31 maggio 2013.
L'8 luglio 1973  Beatrice Tauss, giornalista americana in giro per la penisola e innamorata dell'Italia e degli Italiani, pubblicava sul NYT un articolo dal titolo "Un limone, una pera. Un mazzetto di timo. Le piccole cose che davvero contano in Italia".

É una narrazione fitta, "poetica", semplice ma appassionata, leggera come ali di farfalla, piena di colore e abbacinante come il sole mattutino al castello Eurialo.

Questa singolare coincidenza, avvenuta a distanza di 40 anni, mi ha spinto a prendere la decisione di pubblicare il pezzo della Tauss.

La traduzione dall'inglese è della nostra Elena Corsino.
L'originale del NYT (consultabile in calce) è in possesso del prof. Paolo Giaquinta a cui va la mai gratitudine e la mia stima.

Per i particolari e le motivazioni di questa vicenda si rimanda a www.iblon.it

Un limone, una pera. Un mazzetto di timo.
Le piccole cose che davvero contano in Italia

di Beatrice Tauss

Un omaggio agli italiani, – ma stavolta non al palazzo, alla piazza o al Foro Romano. Non a Botticelli, bensì a questo popolo amabile, portatore di civiltà, dal quale, anche oggi in tempi di decadimento e volgarità, impariamo il significato della parola “gentilezza[1]. Un popolo generoso, che continua a dar prova di benevolenza. Eccone alcuni esempi raccolti di recente.
È un lungo viaggio in macchina quello attraverso la Sicilia da Siracusa a Piazza Armerina, dove è stata recentemente riportata alla luce una villa imperiale romana del III sec. a. C.; un’opera di grande pregio per i mosaici policromi, incredibilmente vividi, con scene di caccia, decorazioni floreali e faunistiche, ragazze in “bikini”. A metà giugno fa già caldo, il viaggio è pesante anche per degli indefessi turisti americani. Il paesaggio è una mescolanza curiosa di terre aride e vegetazione rigogliosa: campi bruni, olivi, mandorli, alberi di fichi, vigneti, cactus, oleandri.
Lungo la strada scorre un torrente di umanità: noi, sulla nostra Fiat a noleggio, vecchi su asini carichi di bisacce rigonfie o enormi fasci di spighe; intere famiglie con bambini dagli occhi timidi, donne che se ne stanno in disparte, uomini diffidenti su carri gialli, decorati con scene dell’eroico Orlando di Roncisvalle. Uno sciame di camion a diesel, greggi di pecore, monache in bicicletta, Fiat 500, pullman turistici, carri, Lambrette, asini.

La frescura del marmo

Il sole è alto, questa è un’ora in cui solo i turisti vanno avanti. Siamo assetati e stremati dal viaggio, lungo la strada ci fermiamo ad un bar, entriamo, passando attraverso una tenda a perline, a ripararci dal sole rovente nella frescura dei tavolini e del pavimento di marmo. Pasticcini, dolci e un giardino di gelati, esposti con il solito tocco di semplicità italiana. La macchina del caffè è scintillante e l’aria è satura del profumo di espresso. Dietro al bancone, al lavoro c’è un ragazzino sui quattordici anni. È qui, senz’altro, da stamattina e ci resterà fino a tarda notte. C’era ieri e ci sarà anche domani. Non farà mai un giro dell’America. Ci scruta con calma, passando in rassegna la Blue Guide, la cartina stradale spiegazzata, i nostri grandi occhiali da sole, i cappelli di paglia lavabili, la nostra esitazione, persino trepidazione. Legge la nostra apprensione per il caldo, la terra straniera. I suoi occhi neri registrano tutto. In un italiano stentato provo a chiedere un’acqua minerale[2] che ci salvi dalla disidratazione, se non dalla disperazione.
Potrebbe, m’avventuro, aggiungerci una fettina di limone? Si rasserena subito di fronte al mio sforzo di parlare italiano. “Ma certo,” dice sollevando tra il pollice e l’indice un grosso limone da una terrina che gli sta davanti. “E perché no? Non ci mancano mica i limoni. Qui di limoni ne abbiamo in abbondanza.” Ripete in tono – magistralmente – sarcastico. Con gesti veloci ed esperti affetta il limone, mentre i suoi occhi continuano a dire, anch’essi ironici, quello che il tono aveva già chiarito a questi turisti provenienti dal paese dell’abbondanza industrializzata: “Noi siamo, come vedete, arretrati. Questa è una terra brulla, inospitale.”
“Ma”, io direi, “che un limone è una cosa bella. E squisita, per giunta.”
È soddisfatto. Ha compreso il mio sforzo maldestro. È conquistato. Gli occhi gli brillano con un’allegria genuina. E con gesto veloce e delicato sceglie un bel limone, lo lava sotto il rubinetto e con uno svolazzo cortese me lo porge. “In omaggio[3]”, mettendomelo sotto il naso. “Senta che profumo.”
Quello scambio di parole, la sua risposta veloce, quell’incomparabile omaggio, tutto questo è la grazia. È italiano.        

*

È pomeriggio, con calma stiamo facendo un giro per le strade interne della Toscana, godendoci gli oliveti e i vigneti, i cipressi e i pini, quando all’improvviso ci accorgiamo di esserci persi. Siamo in viaggio verso Arezzo ma le indicazioni stradali non sono chiare.
Ci viene incontro una contadina, vestita di nero, con un cesto di uova sotto il braccio. Ci fermiamo. Per andare ad Arezzo, “come si fa?[4] Il suo viso di donna anziana s’illumina, mi sorride in modo incantevole mentre si china verso la macchina. Non ha neanche un dente. Oh! Abbiamo proprio sbagliato. Questa non è la strada per Arezzo. Dobbiamo fare marcia indietro e tornare all’incrocio e poi andare “sempre diritto[5]fino a …. Le indicazioni si fanno più complicate. Allora si avvicina, guardandomi intensamente negli occhi con una preoccupazione materna, per vedere se io abbia davvero capito. Ripete lentamente dall’inizio, con grande chiarezza. Poi mi accarezza il braccio e mi assicura che la strada è facile e tutta diritta, la potete fare a occhi chiusi, impossibile perdersi. “Avete capito?” Rassicurata, mi accarezza di nuovo il braccio e mi augura “Buon viaggio”, come se fossimo parenti. In un breve incontro è nata una relazione. Lei ci ha messi sulla nostra strada quasi con una benedizione. Una carezza, uno sguardo, un dolce incoraggiamento pieno di umanità; gli italiani ti danno sempre qualcosa. La vecchietta ci saluta con la mano fin tanto che non siamo spariti verso Arezzo, portando con noi il suo tocco, il suo sorriso, la sua gentilezza.

*

Sotto un abbacinante sole mattutino ci fermiamo al Castello Eurialo. Qui, dice la storia, Archimede collocò sapientemente i suoi specchi e le sue lenti e riuscì a incendiare la flotta Romana. “Una delle più grandi fortezze dell’antica Grecia”, secondo la Guida Michelin. “La più completa e importante costruzione militare greca”, per la Blue Guide. Nonostante il nostro scarso interesse per le fortezze decidiamo di percorrere in macchina gli 11 chilometri che la separano da Siracusa per visitarla. Il posto è deserto, solo ampi spazi di rovine che sovrastano una ampia distesa luccicante di Mar Ionio.
Il custode, un uomo di mezza età, tarchiato, quasi pelato, ci viene incontro. È tutto abbronzato tranne che nel contorno degli occhi, dove rughe profonde s’irradiano in sprazzi di bianco. Ci osserva. Il suo sguardo esperto deve capire se stiamo facendo sul serio oppure se vogliamo un trattamento turistico veloce. Scambiamo qualche parola in italiano e, presa la sua decisione, comincia vivacemente una lunga spiegazione sul sito archeologico dove è nato e cresciuto. Studia e medita su questo luogo da una vita. Ne cura le pietre, le forme che, seppure così lavorate dal tempo, gli appaiono ancora perfette.  È il genius loci. Il suo castello è uno scrigno meraviglioso e inesauribile di ricchezze. È orgoglioso della conoscenza che ne ha. Purtroppo sono in pochi a conoscerlo: “Arrivano, danno un’occhiata tutto intorno, non vedono niente, non capiscono niente, poi guardano l’orologio e mettono in moto la macchina.” Ci dice che dobbiamo “Fare propaganda.”
Ma oggi è infervorato. E ci fa fare il giro completo delle mura esterne e dei passaggi sotterranei, con la pila in mano per guidarci attraverso gallerie buie e spaventose, cunicoli segreti e fortificazioni ingegnosamente edificate. Non la smette di parlare in un assolo di suoni e luci.[6] Con le sue scene e siparietti riporta in vita l’antica fortezza.
“Facciamo che voi siete i greci e io i cartaginesi”. Ci posiziona in un angolo particolarmente pericoloso dove i soldati nemici erano costretti a entrare uno a uno, con una visibilità ridotta a causa dall’assetto ingegnoso delle scale davanti a loro. E così ogni soldato che passa viene abbattuto da noi, ora in possesso di licenza di uccidere assegnataci da quell’uomo eccitato che rievoca la grande vittoria. Ci sentivamo come Sansone che “li percosse l’uno sull’altro facendo una grande strage”. La nostra guida si afferra il fianco dopo che noi lo “abbiamo infilzato con una lancia”, si contorce e, fingendo un gran dolore, cade a terra. Poi salta su in piedi. “A tenaglia”, dice, schiacciando il pollice contro l’indice, “questo è il segreto.” È ubriaco del piacere che gli procura l’ingegnosità della fortezza, una meraviglia militare con la sua insuperata strategia a tenaglia studiata, ci dice, dal Kaiser in persona e dai più moderni strateghi militari, anche statunitensi. Ci indica il considerevole spessore dei muri, la magnifica disposizione delle entrate e delle uscite che garantiva l’inespugnabilità del castello. Ci mostra le stanze e le nicchie scavate lungo i muri delle buie gallerie dove venivano nascosti i cavalli. Ci spiega come gli architetti della fortezza fossero riusciti a creare un sistema di controllo della temperatura. “L’aria condizionata”, traduco a mio marito. E all’improvviso s’illumina, mi afferra la mano e chinandosi me la bacia. “Brava, brava, a me ci sarebbero volute 50 parole per spiegarlo, ma voi l’avete tradotta in due sole parole.” È chiaro, non è tanto la fortezza che lo incanta; quest’uomo è amante della perfezione, gode del piacere del gioco raffinato della mente umana.
Quando, infine, esausti riemergiamo, dopo aver scalato massi, esserci inoltrati per passaggi cavernosi e segreti, aver scavalcato alte mura, quell’uomo infaticabile ancora parla. A quel punto è suo triste dovere raccontarci come alla fine, un brutto giorno, presero la fortezza. Ma attenzione, non con la forza, questo mai, perché sarebbe stato impossibile, bensì con il tradimento di un soldato corrotto! Un traditore – e com’è amaro ricordare quell’infamia!
Ritorniamo alla casa del custode, dove si trova un piccolo museo archeologico che comprende pezzi di sculture, frammenti di terracotta e armi, c’è addirittura la testa di leone di una gargolla. Siamo sopraffatti dall’intensità di quest’uomo, dalla sua energia, dal suo amore. Alla fine usciamo. Accanto alla porta s’innalza un cespuglio rigoglioso e fragrante di gelsomino. L’uomo spezza velocemente due o tre rametti di quei graziosi fiori bianchi, cingendoli di foglie verdi e affrettandosi dietro di noi, infiammato, si china verso di me e mi offre il bouquet. Un premio, dice, per il mio lavoro di tradurre la sua spiegazione[7]. Me lo sono assolutamente meritato, dice, un simile lavoro deve essere riconosciuto.  Quei fiori inebrianti sono miei – in omaggio.
*

Stiamo pranzando alla Taverna Manghisi, fuori Noto, nel cuore brullo della terra di Verga, la terra di Sicilia dove si svolge l’amara lotta per la vita descritta in “Mastro Don Gesualdo” e ne “I Malavoglia”.
Siamo quasi soli, ci fanno accomodare nell’ampia veranda della trattoria che dà su grandi campi riarsi. Il “cameriere” è un giovanotto gentile e cordiale che ci racconta come d’estate da sua zia si guadagna qualche soldo per pagarsi gli studi all’università di Messina. Parliamo di Giovanni Verga, lui è sorpreso dal fatto che condividiamo la sua ammirazione per il cronista di queste terre “remote”. Tra noi c’è un legame.
La letteratura è stata il suo primo amore ma, scrollando le spalle alla maniera italiana, “studio fisica.” Ci aiuta a ordinare piatti contadini, casalinghi, e ci invita a fare il giro della casa, passando per la cucina a vedere la pasta, il pane, i formaggi fatti in casa. Mangiamo dell’agnellino squisito, annaffiato con vino locale che versiamo da una caraffa di ceramica. Per dessert c’è una specialità della zia: dolcetti ripieni di miele e mandorle.
Dopo pranzo ci porta a vedere un fiume poco distante, lì si trova una targa che commemora il luogo incantevole dove Mascagni avrebbe concepito la musica di “Cavalleria Rusticana”, su soggetto di Verga. Il giovane parla con tristezza dell’amara verità racchiusa nell’opera di Verga, della vita della Sicilia: ancora troppo dura, troppo brutale.
Ritorniamo alla trattoria e con dispiacere, addirittura con tristezza, ci accorgiamo di dover partire. Il ragazzo si scusa, corre dentro e dopo pochi istanti ricompare con un pacchetto graziosamente incartato e legato. Me lo porge e dice semplicemente, “Le regalo questi dolci di mandorla – in omaggio[8].
*

C’è una delicatezza speciale nel modo in cui gli italiani fanno doni. Hanno sempre qualcosa da dare, qualcosa di loro, qualcosa di bello, del paese. La grazia di questi doni scioglie il cuore.
Una cameriera di una pensione di Roma, un giorno, nota che sono pallida e che a stento ho toccato la cena, così mentre sto per uscire mi allunga una pera. “Per dopo”, dice, “Le verrà fame.”
A Palazzolo Acreide, in Sicilia, una guida ci mostra le rovine di un teatro greco, poi ci porta poco lontano a vedere delle cave dove si trovano dei sarcofagi antichissimi, ci indica i luoghi in cui i Bizantini scavarono le loro nicchie funerarie sulle mura greche. Vediamo grandi figure greche di Cibele alloggiate (tra le lucertole) in casette di legno per proteggerle dalla rovina. Suo figlio, che aveva insistito per accompagnarci, scompare e ricompare tra le grotte e le tombe antiche, preoccupando il padre con i suoi continui ritardi. I due sono molto legati. La guida mi chiede se io abbia figli. “No”, rispondo. Gli occhi gli si riempiono subito di simpatia. “Male”, dice. Il suo tono sottende una tragedia. E mentre torniamo alla macchina, raccoglie un ramo di origano e uno di timo selvatico che qui crescono dappertutto. Forse mi dà un premio di consolazione.

*

Sono così molti italiani: ti danno sempre qualcosa e noi portiamo via. A loro un grazie di tutto cuore.
  

Beatrice Tauss è assistente di Letteratura e Teatro alla Juilliard School.





[1] In italiano nell’originale.
[2] In italiano nell’originale
[3] Idem.
[4] Idem.
[5] Idem.
[6] Nell’originale in francese son et lumière.
[7] In italiano nell’originale.
[8] In italiano nell’originale.




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