«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

ERAN VENTUNO: Pippinu Iuculanu (Giuseppe Giocolano)



Aveva il fisico duro come l’acciaio, i muscoli più forti della pietra marmurigna che sovente gli capitava sotto il suo piccone prepotente: cavava roccia a megatonnellate dalle nostre strade e contrade.
Un pezzo d’uomo, alto, robusto come un mulattiere, un collo taurino e il viso un po’ slavato ma cotto dal sole, gli occhi scuri; i pochi capelli che gli erano rimasti, erano così riarsi che avevano preso il colore del cuoio capelluto e lo facevano sembrare calvo, calvo sino agli orecchi, abbondanti, questi ultimi, come la sua mole; portava la coppola sia d’inverno che d’estate. Per le feste comandate vestiva in modo dignitoso, il cappello diventava di feltro, il viso assumeva una espressione seria ed austera: faceva veramente una bella comparsa, peccato che durava poco, lo spazio di un mattino.
Camminava senza imponenza, anzi la sua andatura era simile a quella di un bambino, dinoccolata, ondeggiante, i pantaloni un po’ corti, svolazzanti. Un bambinone era, per il suo carattere, per la sua semplicioneria, per il suo modo di ragionare infantile. Era amante del soliloquio; parlava da solo, a voce alta: domande e risposte, specie quando aveva ingollato qualche bicchiere di troppo (il che gli capitava di sovente). Nell’impeto del vino, il suo vaniloquio si infervorava, gli occhi chiari gli si imperniciavano, gli diventavano piccoli piccoli, li chiudeva, li lasciava chiusi, li apriva, si intorbidava in volto, guardava di traverso imbambolato, senza fissare nessuno, oscillando: era il momento in cui incominciava a sacramentare: “Buttani i munni i Pippinu Iuculanu…”, sembrava un bue modicano attafanato, da non voler sentire ragione.
Oltre che bere, gli piaceva mangiare, lavorare e suonare le campane, sì, ma solo quelle di san Michele. Viveva solo, in un basso, al n. 8 di via Acre proprio sotto l’ombra dell’ottagonale torre campanaria di cui era signore e dominatore assoluto. La sera di solito cenava in osteria e beveva senza parsimonia, il vino gli montava alla testa e così, ogni volta, quando si ritirava a casa, con gli occhi invetrati sudava sette camicie per infilare nel giusto verso la chiave nella toppa.
Proclamava ai quattro venti di essere il numero uno dei campanari palazzolesi. Guai a stuzzicarlo sull’argomento campane. Incominciava a bestemmiare come un turco, anche senza aver bevuto, e tirava per i piedi gli angeli e i santi del paradiso, facendo tremare la chiesa sin dalle fondamenta. E allora diventava logorroico, raccontava tutte le sue imprese di campanaro, faceva i confronti con le campane delle altre chiese, puntava l’indice e lo agitava con un gesto vago, a rinforzo del suo eloquio, come d’uomo persuaso di quel che dice, ma mai a mo’ di minaccia. Quando parlava del parroco Razzana (il sac. Vincenzo Lombardo, primo parroco di san Michele), di cui era accanito tifoso e sostenitore, gli veniva la schiuma alla bocca: ne decantava in perpetuo doti e virtù; era l’unico e vero parroco non solo di san Michele, ma di tutte le chiese di Palazzolo (e della diocesi).
E quando si attaccava alle campane della sua chiesa, solitario anche su quel pinnacolo della piazza, non la smetteva più, suonava sino a farle crepare tutt’e tre, e i poveri cristiani del quartiere, e primo fra tutti il san Michiluzzo in pietra sulla guglia, ne rimanevano intronati. Non gradiva però l’appellativo di sacrista, anzi si offendeva, era un servo di Dio tutto a modo suo.
Se il vino era linfa vitale per le sue vene, il piccone era protesi per le sue mani, le sue grosse mani incallite dal lavoro. Come il padre faceva il pirriaturi ma, a differenza del martello pneumatico, lui non si sfasciava mai, era un vero animale da lavoro. Scavava pozzi artesiani (prima dell’arrivo delle trivelle), cisterne, grotte, fognature, strade, fondamenta per le case, si “mangiava” qualsiasi rovina. A volte lo ingaggiavano i muri a siccari per farsi staccare le lettiere di calcare. Pippinu col piccone incideva sui puntali ciclopici delle golette di qualche centimetro (cugneri), poi vi introduceva i cunei corredati di lannuzzi e quindi giù colpi di mazza seguiti meccanicamente da un grido smorzato. Tre, quattro colpi e la pietra si apriva  comu nu ranatu.
Per i pozzi prima incominciava a preparare la trinca, un blocco rotondo di un metro di raggio che a girare veniva intaccato sino ad una certa profondità per tracciare l’intero perimetro dell’apertura. Con la mazza poi faceva saltare la roccia all’interno di questa circonferenza e quindi dando di punta e di taglio incominciava e scendere, sempre scavando in profondità. Intorno ai due metri lasciava il piccone col manico lungo e usava quello più funzionale col manico corto, da tenere tra le gambe. Non si concedeva pause: un secondo per sputarsi sulle palme delle mani e subito lavorando di piccone giù a menare colpi accompagnati ritmicamente dagli ah! ah! che gli davano la carica e lo facilitavano nell’espirazione, nel fargli uscire il fiato. Non c’era pietra arenaria, dolce, cristallina, marmurigna, che gli resistesse: un secondo per sputarsi sulle mani e per asciugarsi col braccio la faccia grondante e di nuovo ah! ah! colpi di piccone a levapilu. Una vera spola meccanica.
Lavorava sempre pagato a giornata, mai a strasattu: non voleva prendersi la responsabilità di un lavoro a cottimo, non entrava nella sua filosofia di vita tutta impostata sul quotidiano. Aveva una forza incontenibile, al pari di un bufalo; non aveva rivali nel campo della pietra: il lavoro di una sua giornata equivaleva a quello di due o tre operai messi assieme. E giustamente mangiava e beveva per due e per tre. Aveva un debole per la pastasciutta che, quando era possibile, se la faceva servire in un fiancuottu, con i bordi alti: spaghetti (un chilogrammo), salsa, formaggio o ricotta salata, pepe rosso. La sera minestra di fave o di fagioli, due o tre scodelle, oppure, meglio, di nuovo pastasciutta con il rituale spegnimento di svariate lampe di vino, una sopra l’altra.
Poi con gli anni incominciò a star male e non poté più lavorare; in seguito diventò completamente cieco. E allora il buon don Sebastiano Baglieri, parroco pro-tempore della parrocchia di san Michele, lo mise sotto le ali della sua misericordia sino alla fine dei suoi giorni e Pippinu, dall’alto, stilò subito la nuova classifica dei migliori parroci palazzolesi: 1° il parroco Razzana, 2° il parroco Baglieri…

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