«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Passatempi di bancarelle: Calacausi e simenza

Si presentava pure ai tavolinetti dei bar o nelle osterie… e ti scaraventava sul tavolo una cascata di nucidda miricana, calia e simenza…

Palazzolo Acreide. In qualsiasi paese o città c’è sempre qualche caliaru a posto fisso che con la sua bancarella piena di roba abbrustolita staziona nei pressi dove la gente predilige fare quattro passi:
Carlo il Pinto… vendeva in piazza su una bancarella, la domenica e nei giorni di festa, ceci e fave abbrustolite, semi e noccioline americane, lupini. Sua moglie, grassa e alta, con una nidiata di figli e di ragazzi attorno,  attizzava il fuoco nel fornello da caldarroste, panciuto come una ciminiera per abbrustolirvi, castagne, ceci, fave…” (A. Uccello, Janiattini). A Palazzolo c’era  masciu Giuvanni Fazzino che teneva la sua bottega di passatempi, compresi fichi e fichidindia nella stagione, al n.23 del Corso, e poi c’era u ‘ncuddatu (Santoro), c’era don Pippinu Fazzino con la moglie donna Nedda, tutti e due, per antonomasia, soprannominati i caliari. Don Pippinu con la carrozzella tirata dall’asina  Ciccina  stazionava in piazza, sotto la lapide dei caduti. Lo stesso faceva Lombardo (Iurici) e prima di lui don Peppi Trunzu (Cataldi), il quale prima aveva la postazione tra via Monastero e il Corso.    
Per le feste, poi, arrivavano e arrivano anche oggi i forestieri che fanno concorrenza ai caliari locali. Di questi forestieri, ricordo perfettamente un caliaru assai tosto, di solida stazza, dall’espressione sorniona e dal sorriso sgangalato. In maniche di camicia, indossava un consunto e lucido gilet con le fibbie slacciate penzolanti sul di dietro. Girava per le strade del quartiere dove si svolgeva la festa con una voluminosa cesta ovale piena di tutto il repertorio e con i fogli di cartapaglia per il cartoccio tenuti in umido sotto l’ascella. Si presentava pure ai tavolinetti dei bar o nelle osterie e senza nemmeno dare il tempo di dire no, in un baleno riempiva il piatto della stadera, faceva scorrere più veloce della luce il romano sulle tacche (c’o bon pisu!) e ti scaraventava sul tavolo una cascata di nucidda miricana, calia e simenza. Se tentavi di fare resistenza ti incoraggiava a mangiare tutto quel ben di Dio alla sua salute, senza pensare ai soldi. Era questa la frase che faceva scattare la molla dell’orgoglio del titubante avventore che metteva subito mano alla tasca. Oltretutto i calacausi e la simenza col vino o con la birra ci stanno come il cacio sta sui maccheroni e non per niente vengono soprannominati “chiama vino”  

Calacausi, simenza e altro
L’arachide è una pianta erbosa originaria dal Brasile e coltivata un po' in tutto il mondo. I semi commestibili di questa pianta sono oggetto di un'intensa attività agricola ed industriale. Dalla spremitura si ricava un olio qualitativamente idoneo all'alimentazione umana e particolarmente adatto alla frittura degli alimenti. In Europa si consumano prevalentemente semi di arachide tostati (al forno), sia dentro i baccelli legnosi sia sgusciati e salati. L’arachide, o nucidda miricana (per distinguerla dalle nocciole, un tempo vendute anche quelle come passatempo e per giocarci) viene chiamata anche calacausi (alla lettera: abbassa pantaloni) per l’effetto lassativo che può procurare a chi ne mangia troppa.  
Altro ammazza-tiempu è la simenza (anche simenta). Si tiene il bruscolino stretto in verticale tra l’indice e il pollice quindi lo si schiaccia con gli incisivi facendo fuoriuscire il seme vero è proprio. I semi sono quelli della procace zucca rossa (Cucurbita maxima) o d’inverno i quali vengono fatti asciugare al sole per diversi giorni e poi si salano e si tostano al forno.
La calia com’è noto non è altro che il cece abbrustolito. Ancora oggi, la tostatura dei ceci è un vero e proprio rito, specie se si vuole ottenere calia tenera e croccante. Scartati i iadduffi (i ceci piccoli e neri), si mettono a bollire nell’acqua salata per un certo tempo, la cui durata ogni caliaru tiene segreta per sé in quanto ad essa è affidata la tenerezza del prodotto finale. Dopo sgocciolati si coprono con una coperta e si mettono a “stufare” per un paio d’ore in una madia, così “ritornano”, si ammorbidiscono cioè con il loro stesso vapore. Fatto questo, i ceci sono pronti per andare a finire dentro il caliaturi ed essere tostati in mezzo alla finissima sabbia arroventata e al sale, per diventare, infine, quando all’esterno si formerà una patina bianca, calia.  

Anche le fave possono essere abbrustolite, favi caliati. Dopo la tostatura vengono cosparse di sale e di un filo d’olio per renderle lucide e nel tentativo di mantenerle morbide. Quello delle fave caliate è un vero rischio per denti e dentiere (oltretutto non c’è più la possibilità di comprare tali protesi di seconda mano, come avveniva un tempo a Roma nel mercatino delle “pulci” di Porta Portese, dove venivano vendute a buon prezzo in una grande cesta di vimini). A Palazzolo, tuttavia, erano rinomate le fave caliate di don Peppi Trunzu che, non si sa come, aveva trovato la ricetta giusta per mantenerle morbide, tanto che per la loro caratteristica mollezza le sue non venivano più chiamate fave caliate, ma fave pisciate (con tutto il rispetto).
Di questi passatempi di bancarella fanno pure parte le carrube infornate, le castagne secche (pastigghi) o arrostite, i lupini, e da qualche tempo anche i pistacchi tostati e salati, ecc.  

Per tutte le occasioni
U scacciu, come comunemente vengono chiamati tutti assieme questi piccoli frutti proprio perché destinati ad essere schiacciati per mangiarli, una volta non mancava mai in occasione di matrimoni e nascite, specie nei ceti meno abbienti. Una settimana prima dello sposalizio, la calia, confezionata dal caliaru di professione (a Palazzolo era assai rinomata ‘a Scupulidda), veniva recapitata ai vicini di casa, assieme ai cosa ruci, in bianchissime salviette di pintu e offerta dagli sposi agli invitati presenti al trattamentu, senza dire dei ragazzi del vicinato che fin dalle prime ore del mattino stazionavano a frotte davanti la porta della sposa per dar la caccia appunto alla calia. E ancora oggi infatti,  quando in un posto c’è confusione di ragazzi senza giustificato motivo si usa dire: “Carusi e cchi cc’è a calia!?”. Veniva pure elargita a fazzolettate, magari assieme alle fave “caliate” e alle mandorle abbrustolite, alla levatrice, ai compari, e agli invitati presenti al vattiu.

Una volta questo era il passatempo preferito dagli spettatori che andavano ad assistere all’opera dei pupi tra una scena e l’altra o nell’attesa. Famosa la raccomandazione che il puparo siracusano don Ciccio Puzzo faceva ai ragazzi ogni sera prima della rappresentazione: “Picciotti mi raccumannnu, duranti a rapprisintazioni nun si parra, nun si frisca e nenti pirita”. Celeberrimo, il detto che il pubblico catanese urlava al puparo don Angelo Grasso quando, costui, preso dalla foga, la sparava troppo grossa:“Rrossa jè don Angilu”. In questo teatro di marionette, come ci fa sapere Martoglio nel suo Centona, era di casa un venditore di semenza dal nome Felice che i frequentatori del locale chiamavano don Saladino: “Du palanchi di semenza cca bbanna, don Filici”, gridavano i ragazzi tra una scena e l’altra. Dall’opera dei pupi questa abitudine passò poi ai cinema.

Oggi questo genere di passatempo, assieme ad altri snack di tipo industriale, viene consumato in qualsiasi occasione senza bisogno di aspettare feste ed eventi e per giunta lo si può trovare bell’e confezionato in qualsiasi supermercato. Caliari e siminzari (artigianali) sono avvertiti. 

IL CORRIERE DEGLI IBLEI, settembre-ottobre 2008

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