«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Il maniscalco


"I maniscalchi non possono ferrare le vetture) nè salassarle o medicarle nelle strade, ma in luoghi ritirati e rinchiusi da muri. Il sangue però non possono versarlo a terra, ma raccoglierlo nei tinelli".
Palazzolo Acreide. Lavora per appuntamento e quando è chiamato per un intervento si sposta esclusivamente con l'auto personale. Non è un luminare della medicina ma è semplicemente il maniscalco di oggi, costretto ad adeguarsi ai tempi per potere lavorare e guadagnarsi il pane.
Il "Fiorino" è diventato la sua officina itinerante, attrezzato di tutto quanto può servire per la ferratura dei cavalli. E, come il signor D'Angelo, il maniscalco  che abbiamo visto all'opera oggi, allo stesso modo sono organizzati più o meno gli altri suoi colleghi.
Il vero declino di questo mestiere è iniziato pressappoco a metà degli anni sessanta, quando, in pieno boom economico, l’auto si affermava come prodotto di massa. Cavalli, muli e asini in qualità di bestie da soma o da traino, venivano messi da parte per essere definitivamente rimpiazzati dai più potenti "cavalli" sviluppati dai motori degli autoveicoli.
La parola maniscalco era quasi sempre sinonimo di fabbro; questo artigiano, difatti, oltre ai ferri per le cavalcature ,costruiva, di solito, gli strumenti più comuni in uso presso i contadini: falci, zappe, zappuddi, rasuli, accette, vomeri e gioghi per gli aratri, ecc.
Mentre i fabbri più rifiniti e più abili nell'arte della forgiatura del ferro battuto (per tutti, Prazio a Siracusa, i Mascinunzii e i Chicchiriddi a Palazzolo), facevano esclusivamente i fabbri.  
Le officine dei maniscalchi erano strategicamente dislocate, per  motivi pratici e logistici, agli ingressi dei centri urbani. I contadini, quando la domenica venivano in paese, la prima sosta, per abitudine, la facevano dal maniscalco (anche se non dovevano ferrare): una spuntatina e una pettinata alla criniera, una leggera strigliatina, controllo degli zoccoli. Poi, andavano dal barbiere di fiducia e anche lì facevano la fila, mentre la bestia, legata alla staccia, aspettava pazientemente fuori in attesa che il padrone si rasasse.
Il maniscalco di una volta però, oltre che a fare il fabbro, a foggiare e ad applicare il ferro agli equini, era anche capace di diagnosticare e curare le malattie più comuni di questi animali, compresi bovini e ovini; era in grado di eseguire semplici operazioni chirurgiche o di fare il dentista degli equini. 
Il medico degli animali
Era insomma il medico degli animali, e difatti, a quel che si dice, erano numerosi gli studenti in veterinaria, che, ancora fino ad una quarantina di anni fa, facevano pratica presso i maniscalchi più esperienti e abili in questo campo.
Giuseppe Pitrè nel suo "La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano"    riporta: "Maniscalco... medico degli animali da soma, che cura come ha imparato dal padre, dal nonno: con purganti, decozioni, lavaggi, impiastri, cerotti, vescicanti, salassi e simili...".
E in effetti i maniscalchi più esperti le espletavano tutte, queste funzioni.
Castravano con l'apposita tenaglia o con le stecche; cauterizzavano con i ferri da cauterio la scurzania una grave lesione (actinomicosi) che colpiva in faccia bovini e ovini e altre infezioni; sgonfiavano i bovini affetti da meteorismo affondando il tre quarti  nella fossa del fianco sinistro per arrivare fino al rumine oppure introducendo una mano unta nell’intestino estraevano le feci e stasavano le uscite naturali ingorgate; salassavano gli animali affetti da polmonite o troppo grassi applicando la balestra nel giugulare; asportavano, con un fil di seta o cauterizzando, le verruche, cèusi, che si formavano sulla zampe degli equini, curavano la scabbia. Per chiudere le ferite si usava il miele o un ferro caldo, oppure si applicava un'erba con forte potere emostatico, u pilurussieddu.
La ferratura si faceva a caldo ed era tale e tanta l'attività di questi artigiani   che i Comuni per motivi d’igiene, disciplinavano tale mestiere con norme specifiche e particolari. Riportiamo a mo' di esempio l'articolo 12, Capo Primo, dei "Regolamenti Municipali di Palazzolo A." del 1865: "I maniscalchi non possono ferrare le vetture (sic) nè salassarle o medicarle nelle strade, ma in luoghi ritirati e rinchiusi da muri. Il sangue però non possono versarlo a terra, ma raccoglierlo nei tinelli".
La ferratura degli equini
 Il lavoro primario del maniscalco era però la ferratura degli equini che si praticava mediamente una volta al mese. I maniscalchi dell'ultima generazione, oggi si limitano a compiere esclusivamente questa operazione; la cura delle patologie animali è oggi demandata al vero medico degli animali che è il veterinario. La balestra, il tre quarti, la tenaglia per castrare, a scalidda e la piccola forgia, sono diventati vecchi cimeli arrugginiti e inutili.
Per ferrare bisogna essere almeno in due: il maniscalco e l'aiutante che tiene lo zoccolo. Nei tempi andati presenziava una terza persona, l'apprendista, addetto a porgere gli strumenti "al mastro" e l'aiutante era di solito il contadino stesso, proprietario del quadrupede.
Mentre il maniscalco lavora, l'aiutante tiene ben ferma la zampa dell'equino, cercando di mantenerlo quieto, smanacciandolo o accarezzandolo. Quando l'animale è particolarmente irrequieto, si applica la mordacchia "u truccituri", una specie di strumento di tortura che, stringendo il labbro superiore del cavallo, riduce l'animale a più miti consigli.
Schiodato e sferrato il cavallo, con la tenaglia ri taggghiari e con il cutiddazzu si asporta l'esuberanza cornea, quindi, usando la rosetta, ruoscila, uno strumento affilatissimo, si passa al pareggiamento e alla rasatura dello zoccolo.
La scelta del ferro da applicare a freddo, avviene dopo ripetute prove, fatte sullo zoccolo predisposto dell'animale ,proprio come quando si provano le scarpe: il ferro, pronto in tutte le misure e forme (a pianella, a pantofola, a lunetta, a mezzaluna, a catena, a ciambella, per tutti i piedi, ecc.), si deve adattare con estrema precisione all'orlo plantare. L'eventuale "barbetta" o cresta servirà a tenere più saldo il ferro allo zoccolo.
Gli appositi chiodi a testa quadrata si piantano trasversalmente, in modo da farli fuoriuscire dalle parte esterna dell'unghia, poi si tagliano e si ribattono. Con la raspa si passa infine all'operazione finale di limatura e di rifinitura, facendo poggiare lo zoccolo dell'animale su un rudimentale treppiedi, cippu.
Nei centri ad economia agricola, il maniscalco veniva remunerato in frumento e ad anno: tratteneva per sè il grano occorrente al fabbisogno della famiglia e il resto lo vendeva in contanti.
Le prestazioni inerenti la patologia animale non erano regolate da tariffe ufficiali e venivano effettuate sempre a titolo di favore. Il contadino, poi, in occasione delle principali festività, contraccambiava la cortesia con presenti a base di formaggio, ricotta, uova, polli o quant'altro poteva offrire la campagna. Scomparse le botteghe dei maniscalchi, è scomparsa questa primordiale forma di baratto.
Oggi i pochi maniscalchi rimasti ferrano i cavalli al loro domicilio, presso privati o nei maneggi; solo cavalli dunque,  i muli sono spariti e i pochi asini rimasti a poco a poco muoiono d'inedia o di vecchiaia.
Di conseguenza, il maniscalco è di casa nei maneggi e in quei centri tradizionalmente ricchi di fervore atavico per i cavalli: Floridia, Avola e Canicattini per le nostre latitudini.
CAMMINO, settimanale di informazione e di opinione,  9 febbraio1992

1 commento:

muscolino giovanni ha detto...

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